A storie di percussioni

 

Essendo stato “stimolato” da tempo a scrivere qualche parola a riguardo del mondo delle percussioni desidererei, tanto per cominciare, introdurre schematicamente alcune considerazioni e tappe storiche importanti.

Gustav Holst, il noto compositore attivo anche come didatta nella Londra degli inizi del Novecento, sottolinea l’importanza dello studio delle percussioni da parte di tutti gli studenti di musica “…fosse solo per contare le battute vuote…”Ma a parte questo sano “studio del silenzio”, certamente non dobbiamo scordarci che in Africa, in passato come ora (per quanto ormai le tribù “primitive” siano da considerarsi praticamente estinte),  le percussioni, assieme al canto e alla danza, costituiscono il principale “tramite” tra gli uomini e gli spiriti e le divinità durante il compimento delle varie ricorrenze e dei rituali. Questo avviene tuttora anche in altri continenti, alcuni in seguito all’influenza almeno in parte ancora dell’Africa (Centro e Sud America), altri in seguito allo sviluppo di propri modelli, sempre finalizzati alle varie ricorrenze rituali o meno, come ad esempio in Asia e specialmente in Indonesia e India.

In Europa, a parte le testimonianze prevalentemente scritte della cultura Greca e Romana, le ricorrenze liturgiche impiegano prevalentemente la voce come “tramite”: qui le percussioni, a parte qualche rintocco di campana (forse l’unica percussione autoctona veramente italiana) vengono lasciate “on the road” a rinforzare col ritmo le danze e i canti popolari.

In un certo senso le Crociate costituiscono la “salvezza” per la nostra timbrica percussiva soprattutto per merito proprio dei popoli contro cui i Cristiani andavano a combattere: prima gli Arabi (saldamente stabilizzati in Spagna per un lungo periodo) e soprattutto poi i Saraceni e i Turchi arricchiscono considerevolmente la famiglia dei nostri strumenti.

I nuovi arrivi sono niente di meno che: timpani, grancassa, piatti, triangolo, cappel cinese (uno strumento molto in voga fino a fine Ottocento e impiegato da Mozart, Rossini e in tutti i contesti della “Turcheria”, misteriosamente scomparso dal Novecento in poi…), ma anche parecchi strumenti a fiato tra cui oboi e trombe (queste ultime usate spesso in compagnia dei timpani, i quali riescono addirittura a sostituire la funzione di sostegno della tonica e dominante esercitata dalla quarta tromba).

Questi fondamentali “contatti” con le culture dell’area orientale e medio-orientale, hanno importanti riscontri dapprima con l’apparizione di alcuni strumenti nei trattati musicali più importanti scritti tra il 1511 e il 1636 (Virdung, Agricola, Arbeau, Pretorius e Mersenne) e poi con i “solari” esempi di impiego dei timpani nella corte di Luigi XIV e i primi brani scritti a loro dedicati (si veda la Battaglia di timpani del 1685 composta dai fratelli Philidor).

Ed ecco apparire la “Banda Turca”: a partire dal 1720 circa diventa sempre più presente a partire dalla Polonia dapprima nelle bande militari (come nella tradizione della Banda Giannizzera del Sultano) e poi nell’orchestra: anche in questo caso il geniale Mozart, le introduce pochi anni dopo in maniera “massiccia” (6 percussionisti per eseguirla come richiesto nella tradizione!) nell’Ouverture della prima opera in tedesco (il  Ratto del Serraglio), provocando non poco sconcerto tra il regale pubblico presente.

Scorrendo velocemente la clessidra del tempo, sorvolando purtroppo sopra Beethoven, Brahms, Wagner, Mendelssohn, Verdi, Tchaikovskj, Rimski-Korsakov, Mahler e quanti altri hanno avuto un ruolo predominante nello sviluppo delle percussioni in orchestra, devo (per limiti di articolo) volare direttamente a fine Ottocento perché qui succede un evento particolarmente importante.

Verso il 1880 l’Occidente si aggiorna con le tradizioni musicali extraeuropee: all’Expo mondiale di Parigi vengono invitati artisti e musicisti a rappresentare i paesi “colonizzati” dell’Africa, Indonesia, India ed Estremo Oriente: lo “shock” è molto forte tale da sortire effetti benefici all’ispirazione e al rinnovato interesse per la musica popolare (europea ed extraeuropea) anche da parte dei compositori più raffinati.

Queste “nuove” percussioni poi invadono sempre più il campo: i metallofoni del “gamelan” indonesiano (oltre ad aver ispirato da Mussorgskj nel Boris Godunov a Puccini nella sua ultima opera Turandot) riescono a trasformarsi in nuovi strumenti, come ad esempio il vibrafono; già Mendelssohn parecchi anni prima aveva citato nelle sue lettere la presenza vagante nelle sale da concerto europee di un grande virtuoso dello xilofono, un certo Gusikov, la cui bravura lo aveva letteralmente incollato alla sedia.


Ed eccoci nel Novecento, il “nostro” secolo, quello che consacra le percussioni a un ruolo assolutamente primario: nel 1917, nel pieno del baratro della Prima Guerra Mondiale, lo “svizzero” Stravinskj compone il primo “solo” per batteria (o meglio dire insieme di percussioni) nella sua Histoire du Soldat (ma come possiamo dimenticare i “soli” nella Sagra e degli altri “Balletti russi”?)

Poco più tardi prende forma la musica che - come sostenne Leonard Bernstein - assieme ai Beatles, costituisce la vera scoperta sonora del Novecento: il jazz. Da allora le percussioni “turche” (cassa, tamburo, piatti, eccetera) vengono riunite in un unico innovativo strumento: la batteria.

Nel 1932 circa uno degli pionieri dell’avanguardia musicale Edgard Varése compone secondo Sachs “…la più grande ispirazione ritmica fino ad allora mai prodotta…”, uno dei capisaldi della letteratura “industriale”: Ionisation per 13 esecutori di sola percussione, eseguita a Padova per la prima volta il 4 novembre 2004 dal nostro Ensemble del Conservatorio.

Poco dopo, Bartòk nel 1937 compone la Sonata per due pianoforti e percussioni, un'altra pietra miliare nella letteratura da camera; in seguito John Cage e Lou Harrison introducono nella famiglia delle percussioni oggetti sonori che fino a quel momento alloggiavano solo nelle discariche: lattine, barattoli, freni a disco, molle di sospensione di auto e camion, vasi, lastre di metallo, eccetera.

Da qui in poi succede di tutto… purtroppo non possiamo dimenticare l’evento storico più nefasto del Novecento: la Seconda Guerra Mondiale, con le sue catastrofiche conseguenze nel mondo dell’Arte: intere generazioni di artisti - eccetto quelli che erano riusciti ad emigrare in tempo nel Nord America - muoiono nei campi di battaglia e nei campi di concentramento. L’Italia da questo punto di vista è uno dei paesi che più ne fa le spese: i teatri scompaiono sotto le bombe e soprattutto una “tradizione” musicale, anche nel campo delle percussioni, sparisce nel nulla senza quasi lasciare traccia!

Nel dopo guerra uno dei sopravvissuti – sfigurato da una bomba “inglese”,  condannato a morte dai “Colonnelli” e costretto a fuggire in maniera rocambolesca dalla sua Grecia - introduce la matematica e la “sezione aurea” (quella impiegata dai Greci antichi) nella composizione: mi riferisco a Iannis Xenakis. Con lui le percussioni vengono impiegate al massimo livello del virtuosismo possibile nei famosi soli di Psappha e Rebonds.

Qui devo fermarmi (per ignoranza!) perché ciò che succede dal dopoguerra in poi non è ancora stato capito, digerito o semplicemente ascoltato dalla maggior parte delle platee concertistiche.

I vari sperimentatori da Varése in poi (da Boulez, a Stockhausen, fino ai nostrani Maderna, Berio e Donatoni) pur avendo manifestato la loro incredibile vena compositiva   sono stati relegati chissà perché nelle “sale carbonare” di alcuni seguaci e adepti. Forse le future generazioni dovranno aspettare parecchio: pensare che un genio come Bach ha dovuto aspettare esattamente un secolo prima che Mendelssohn riportasse alla luce la sua fenomenale Messa!


Per oggi l’articolo potrebbe finire qui, ma vorrei aggiungere solo due ultime considerazioni che trovo piuttosto urgenti. Personalmente noto che il pubblico italiano - ma direi soprattutto i critici e i direttori artistici di stagioni concertistiche e teatri - è culturalmente piuttosto restio ad accettare nuovi suoni e nuove idee; posso dire in sua difesa che probabilmente non è proprio colpa sua se nel nostro paese, differentemente a ciò che succede oltralpe (basta andare nella vicina Austria), manca (deliberatamente?) una “visione” dell’educazione musicale che parta dalla formazione dell’orecchio dei piccoli fino alla guida del pubblico adulto. Questo è, e sarà per lungo tempo fino a che le cose non cambiano - e fino ad almeno i venti anni successivi al cambiamento - il peso più fatale per la formazione di un pubblico consapevole e attento: d'altronde per vedere qualcosa di musicalmente e culturalmente interessante alla TV, per esempio, a che ora dobbiamo accenderla??

Vi saluto e concludo ritornando alle origini - un bel Da Capo con Coda finale - con una frase di Boezio che riassume in maniera perfetta tutto questo mio modesto excursus, per dire alla fin fine che già al tempo dei Greci le questioni fossero molto chiare anche riguardo l’utilità della musica in campo terapeutico: “…la salute è così musicale, che la malattia non è altro che una dissonanza e questa dissonanza può essere risolta attraverso la musica stessa…”.

Insomma: suonate che vi passa!!


dalla Rivista “Alterazioni”  n°4 dicembre 2006